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Insegnando nella Scuola Secondaria, mi sono trovato indirettamente coinvolto nelle manifestazioni che gli studenti di tutto il mondo hanno organizzato per sensibilizzare la politica sul tema del cambiamento climatico. Fra i vari cartelloni che ho visto, più o meno originali e provocatori, ce n’è stato uno che mi ha particolarmente colpito: Noi siamo Natura che difende se stessa. Si tratta di uno slogan emerso per la prima volta durante i Climate Games del 2009, che puntava  sottolineare come tutti fossero coinvolti nella sfida di fronteggiare il cambiamento climatico e di come siano necessarie azioni radicali e decise da parte di tutti i governi.

Questa frase, nella sua semplicità, mi esortava a considerare il tema della crisi ecologica con uno sguardo nuovo, Possibile che ci stessimo concentrando sul sintomo e non sulla “malattia”, come un medico che, di fronte ad un paziente con la febbre alta, punti solamente ad abbassare la temperatura, senza preoccuparsi di curare l’infezione che la ha causata?

Alla radice infatti dei problemi climatici e ambientali vi è il nostro rapporto con il mondo, con la Natura, ma ancora prima vi è il modo in cui noi consideriamo noi stessi in relazione con la Natura.

E’ una questione di paradigma, di modello. Per rispondere in modo efficace alla crisi ambientale occorre modificare profondamente il nostro paradigma. Senza questo cambiamento, le azioni che attuiamo per contrastare il problema saranno solo limitatamente efficaci, esattamente come prendere un’aspirina in caso di febbre può sì farci stare meglio ma non cura l’infezione.

 

LA SEPARAZIONE UOMO-MONDO

Cos’è che spinge l’uomo allo sfruttamento delle risorse ambientali, ben oltre quello che è richiesto alla sua sopravvivenza e alla sua prosperità? E’ stato osservato come le lobbies che si occupano di estrazione di combustibili fossili abbiano già capitalizzato ameno 2800 gigatoni di materiali, nonostante gli scienziati dell’IPCC abbiano avvertito che abbiamo un limite di 565 gigatoni ancora consumabili. Queste stesse lobbies si oppongono strenuamente a qualsiasi azione volta a limitare le emissioni, attraverso fake news e studi controversi di scienziati pagati appositamente. Come possono sentirsi legittimate a farlo? Da dove arriva la sicurezza di chi sostiene che, in ogni caso, l’uomo si saprà adattare a qualunque cambiamento climatico?

Il filosofo tedesco Max Horkeimer, riflettendo sul rapporto fra l’uomo e il suo ambiente, scrisse:

 

Il destino degli animali nel nostro mondo è simboleggiato da un trafiletto pubblicato sul giornale pochi anni fa, in cui si osservava che l’atterraggio degli aeroplani in Africa è spesso ostacolato da branchi di elefanti ed altri animali: qui gli animali sono dunque considerati semplicemente come disturbatori del traffico. Questa mentalità che concepisce l’uomo come unico e assoluto padrone del creato si può far risalire sino ai primi capitoli della Genesi.

 

Dalla Genesi biblica in poi, il mondo è considerato uno spazio popolato di oggetti a disposizione dell’essere umano, che ha come unico fine quello di crescere e moltiplicarsi. L’uomo è considerato un essere privilegiato, dalle caratteristiche uniche, posto in cima ad una gerarchia di esseri dal valore assoluto, ingenuamente stabilita su basi puramente antropocentriche.

Ad accompagnare e alimentare questa idea, un pensiero diffuso di stampo positivista che considera lo sviluppo tecnologico un onnipotente mezzo per fronteggiare qualunque crisi climatica e ambientale.

Ma l’antropocentrismo non si esprime solamente nell’abuso ambientale. E’ una  forma mentis radicata e subdola; quando parliamo di “difendere la Natura”, “proteggere l’ambiente” o, peggio, “salvare il pianeta”, cosa stiamo comunicando?

Nuovamente, poniamo noi stessi come esseri superiori, separati dal cosmo, talmente potenti da disporne, nel bene e nel male. Custodi a cui è stato assegnato (da Dio?) il sacro compito di prendersi cura di questo giardino. Si potrebbe obiettare che questa idea non ha nulla di male, anzi, è positiva, che se tutti la seguissero le cose andrebbero infinitamente meglio e su questo siamo d’accordo. Tuttavia non è la soluzione. Anche pensare di essere i custodi del cosmo è una visione antropocentrica.

La visione antropocentrica si basa su una oggettivazione del mondo, ovvero sull’idea di un Io contrapposto ad un non-Io, in un rapporto tendenzialmente conflittuale. Il non-Io infatti mi limita, esclude delle possibilità. E’ un ostacolo. Come tale, posso rispettarlo, posso tentare di sfruttarlo o posso distruggerlo, ma in tutti i casi cercherò di rendermi superiore ad esso. Su questa base, è impossibile costruire un’etica ambientale. Infatti la Natura continuerà sempre ad essere considerata un oggetto a disposizione, quindi la sua salvaguardia resterà solamente una questione di vuoto moralismo oppure di opportunità economica.

UN NUOVO PARADIGMA

Occorre quindi modificare il nostro modo di considerarci in relazione con  quello che Lovelock nel 1979 chiamò “il sistema Gaia”, ovvero la Terra, considerata complessivamente come un essere vivente unitario. Se ci riflettiamo a fondo, nulla di ciò che noi siamo e facciamo può essere definito innaturale. Persino le nostre città non sono altro che uno dei modi che la nostra specie ha trovato per esistere in relazione ad un ambiente. E’ vero che noi tendiamo a modificare il nostro habitat, ma non siamo nemmeno l’unica specie a farlo . 

Se accettiamo dunque di considerare la Natura non come un oggetto fisso, esterno a noi, un orologio che funziona su basi prettamente meccanicistiche, come insegnato da Cartesio in poi e recuperiamo invece una idea più arcaica, secondo cui Natura è la Totalità dell’esistenza, di cui noi facciamo parte, un flusso dinamico, una fitta trama di relazioni mutevoli, un sistema vivente complesso, allora ecco che ci apriamo alla possibilità di un nuovo paradigma che dia un senso al nostro agire. A quel punto, il nostro agire diventa veramente etico, perchè così facendo possiamo superare l’oggettivazione che ci spinge a considerare la Terra, l’acqua, le foreste e gli esseri viventi che le abitano semplici cose da possedere e sfruttare.

Come sostiene Andreas Malm, è certo difficile convincere gli esseri umani che non sono nulla di speciale, nulla di superiore, ma una parte di un Tutto organico. Allo stesso tempo però questa nuova/antica prospettiva  può essere sorgente di un ritrovato spirito di sincero interesse, empatia e amore nei confronti del mondo.

Ciò di cui abbiamo bisogno è di un paradigma che ci insegni l’integrazione, che ci insegni cioè a considerare le nostre attività nell’ambito di una esistenza complessa. Non perché noi “dobbiamo difendere la Natura”, ma perché ne siamo parte e la prosperità dell’ambiente è inevitabilmente la nostra stessa prosperità.

E’ dunque necessario un lavoro profondo nel singolo e nella comunità, attraverso la diffusione di informazioni e di esperienze significative, che tengano unite la dimensione dell’agire e del pensare, della mente e del corpo, a partire dalla scuola, ma anche nell’arte, nella scienza e nel lavoro.

Consideriamo l’essere umano e la società come aspetti del mondo naturale, parti integrate di un organismo vivente. Ripiantare foreste sulla Terra ma anche nella nostra anima, concepire la nostra vita non come un atto predatorio ma come uno scambio costante col cosmo.

 

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Roberto Baldini

Roberto Baldini

Filosofo e docente di scuola secondaria di secondo grado. E' counsellor professionista a indirizzo gestaltico e transpersonale; studia altresì sciamanesimo e misticismo occidentale e orientale. E' autore del libro "La strada dai molti canti. Filosofia e sciamanesimo greco". Insieme a Katia Guidetti gestisce "Il Passo oltre lo Specchio", un progetto dedicato all’esplorazione di sé e delle proprie relazioni col mondo e con gli altri: www.passooltrelospecchio.com.

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