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La vegetazione spontanea che si insedia lungo le rive dei fiumi, torrenti e ruscelli, viene chiamata “ripariale”. La sua struttura forestale è condizionata principalmente dalla vicinanza all’acqua. La troviamo pertanto anche sulle rive dei laghi, degli stagni e in zone umide o soggette ad allagamento. È costituita, in Italia, soprattutto dalle “Salicaceae”, una grande famiglia che include tutti i pioppi e i salici. Essa è una componente fondamentale degli ecosistemi fluviali e ha caratteristiche molto particolari selezionate nel corso dell’evoluzione naturale dalla prossimità all’acqua, dal flusso della corrente e dal regime idrologico, nonché dal clima.

Parliamo infatti di piante che hanno la capacità di avere il proprio apparato radicale in immersione perenne o per lunghi periodi nell’acqua, senza che le radici marciscano: per questo vengono chiamate “freatofite”. È questa una caratteristica importante perché la falda freatica in prossimità di un corso d’acqua o di un lago è quasi sempre affiorante o giacente a poche decine di centimetri di profondità. Gli ambienti di acque correnti poi sono soggetti a scariche di piene e a esondazioni con energie fortissime che tendono a trascinare via ogni cosa. Nessuna specie arborea a legname duro e rigido e che non abbia un solido ancoraggio nel terreno potrebbe sopravvivervi: ad ogni piena le piante verrebbero spezzate ed eliminate fin dalla giovane età.

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L’energia cinetica delle acque nel corso dell’evoluzione ha quindi avvantaggiato il tipo di vegetazione adatta a vivere in un ambiente tanto ostile grazie alla flessibilità estrema dei rami e dei giovani tronchi, alla loro resistenza eccezionale alla trazione (vale a dire allo strappo), con apparati radicali assai sviluppati, nonché con diverse ed efficienti modalità di riproduzione e ad accrescimento rapidissimo. Salici e pioppi si riproducono infatti facilmente per polloni e per talea (riproduzione agamica, che praticamente è una clonazione) anche in luoghi lontani perché un tronco sradicato o un ramo caduto in acqua può dar vita a un nuovo albero. Anche la riproduzione sessuata è molto particolare rispetto ad altre specie forestali. I semi dei pioppi e dei salici, infatti, sono minuscoli e leggerissimi, non hanno praticamente sostanze nutritive di riserva a differenza, ad esempio, dei frutti dei faggi (fagìole) o delle ghiande delle querce. Ne deriva che sono vitali per un tempo brevissimo, in genere solo qualche mese. I piccolissimi embrioni se non trovano le condizioni per germinare nel periodo immediatamente successivo a quello in cui sono stati emessi muoiono.

La vegetazione fluviale sopperisce a questo limite apparente impiegando la propria energia vitale per produrre una straordinaria quantità di semi, come possiamo vedere comunemente nei pioppi. Questi ultimi sono piante a sessi separati; gli esemplari femminili producono i propri embrioni leggerissimi circondati da un arillo cotonoso espanso (cosiddetti “pappi”) che si disperdono “veleggiando” nell’aria a distanze incredibili o vengono distribuiti su qualche sponda o ansa per galleggiamento sulla superficie dei fiumi. Probabilmente con questa strategia saranno molti i semi “fortunati” che troveranno condizioni idonee di sviluppo, iniziando a emettere immediatamente una radichetta embrionale che diviene poi un fittone che si accresce in pochi giorni. Così quando nel nostro clima mediterraneo arrivano le piogge e le piene autunnali-invernali, le plantule hanno già acquisito un ancoraggio di 30-40 cm o più, e piegandosi nella corrente minimizzano la propria esposizione all’acqua, riuscendo a non essere estirpate.

Tutta la struttura dell’albero sembra adattata allo scopo di un accrescimento veloce. La foglia di un pioppo ha un picciolo ben allungato, schiacciato lateralmente, con elasticità giusta perché possa oscillare su un piano sub-orizzontale al minimo spirare del vento. L’albero così può permettersi di avere tante foglie a lamine larghe e nel contempo di far penetrare molta luce solare anche negli strati di fogliame inferiori che viceversa rimarrebbero in ombra. Questa particolarità fornisce all’albero maggiore capacità fotosintetica che è alla base della notevole velocità di accrescimento. Vista da lontano, la massa delle foglie di un pioppo che oscillano al vento richiama alla mente il brulichìo della folla umana in un mercato o a una festa: viene attribuito a questa similitudine il termine del genere, “Populus” (popolo). La flessibilità dei rami è tale che viene sfruttata fin dall’antichità per realizzare, intrecciati finemente, cesti assai leggeri e resistenti, nasse per la pesca fluviale e in passato persino ponti per l’attraversamento dei corsi d’acqua, chiamati “ponti di fascine”.

In definitiva se è vero che la presenza del fiume con la sua violenza ha determinato la selezione delle caratteristiche uniche di questa vegetazione, è altrettanto vero che essa ha determinato l’aspetto fisico e morfologico dell’ambiente fluviale e del paesaggio. Se non ci fosse questa vegetazione (unitamente a quella erbacea come Fragmites, Tipha, Carex, Scirpus che hanno le medesime caratteristiche di ancoraggio radicale, flessibilità e di resistenza allo strappo), i nostri corsi d’acqua apparirebbero come desolati canali con le ripe franose simili ai canyon del Rio Grande: la violenza delle acque avrebbe eroso, scavato e desertificato tutto l’intorno.

La vegetazione riparia svolge diverse funzioni essenziali negli ecosistemi acquatici. Innanzitutto è un efficace filtro-tampone protettivo della qualità delle acque. La lettiera riparia è assai spessa, soffice e umificata, in grado di bloccare quasi tutto quello che le acque meteoriche ruscellando superficialmente erodono dai terreni circostanti, inclusi gli inquinanti diffusi che vengono trappolati e resi non biodisponibili. Un fiume che ha la sua vegetazione integra, presenta generalmente acque limpide. Il pabulum microbico della lettiera e dell’humus, inoltre, riesce a scomporre in tempi brevi anche sostanze organiche resistenti alla biodegradazione.

Inoltre le foglie che in autunno cadono in acqua hanno un ruolo ecologico importantissimo per la vita fluviale: quelle dei pioppi e dei salici presto si rigonfiano divenendo più tenere, poi si tingono di marrone allorché vengono colonizzate al loro interno da microfunghi che le arricchiscono di elementi nutritivi: una dieta ottimale per la copiosa comunità degli organismi invertebrati acquatici detritivori che sono a loro volta alla base, ad esempio, dell’alimentazione dei pesci, del merlo acquaiolo, dell’avifauna limicola, degli anfibi.

Ma le importantissime funzioni della vegetazione riparia nell’ecologia fluviale non finiscono qua: essa fornisce ombreggiamento, limitando, nei tratti di alveo fotosintetici, l’eccesso di proliferazione algale e l’abbagliamento delle specie animali che non amano la luce diretta come molti invertebrati e le trote che sono sprovviste di palpebre e che predano gli invertebrati. Protegge inoltre l’acqua dal riscaldamento favorendovi un adeguato tenore di ossigeno disciolto per la vita che ospita: un vero e proprio scrigno di microhabitat per una moltitudine di organismi, grandi e piccoli. Consolida altresì le sponde contrastandone l’erosione e il franamento che causano l’interrimento accelerato di zone fluviali di pianura. Con la sua “rugosità”, unitamente alla vegetazione erbacea e ai salici arbustivi, frena l’impeto della corrente, trattiene più a lungo l’acqua sul territorio mitigando le piene e aumentando i cosiddetti “tempi di corrivazione”. Inoltre, il permanere dell’acqua sul territorio ne favorisce l’infiltrazione laterale e quindi la ricarica della falda mentre attua la regimazione naturale.

Di più: la vegetazione riparia trappola i nutrienti il cui eccesso è assai nocivo per le acque e, per quanto riguarda quelli azotati, attraverso le reazioni nitro-denitro li scompone fino al livello di azoto elementare che viene restituito all’atmosfera.

Favorisce altresì la transizione acqua-terra di specie animali: insetti come le libellule, le effimere e svariate famiglie di ditteri, ma anche vertebrati come tutti gli anfibi, molti rettili, etc. Lo svolgersi del ciclo della materia, tanto più efficace quanto maggiore è la biodiversità nell’ecosistema, aumenta l’efficienza dell’autodepurazione biologica tipica delle acque correnti e la cui “funzionalità” è oggi alla base delle finalità della normativa introdotta dalla Direttiva Quadro sulle Acque (Framework Water Directive 60/2000/CE) e dal D. Lgs 152/2006 e s.m.i. La fascia ecotonale perennemente umida o di acque bassissime o a inondazione periodica, ricca anche di vegetazione erbacea che ha le radici o i rizomi immersi nell’acqua e la parte restante aerea, come la cannuccia d’acqua, le tife e i carici (chiamata “elofitica”) è quella a più alta efficienza autodepurativa. Questi ambienti infatti vengono oggi “copiati” e riprodotti artificialmente, come veri e propri impianti di depurazione degli scarichi fognari che in Italia sono noti come “fitodepuratori”, raccomandati peraltro dalla normativa per le caratteristiche di basso impatto ambientale e alta efficienza.

Infine le fasce ripariali costituiscono i principali habitat di rifugio per la fauna e fungono da “corridoi ecologici” per i mammiferi e l’avifauna migratrice, la quale memorizza, per orientarsi, le linee dei corsi d’acqua come riferimenti geografici. Ovviamente in questi luoghi non troviamo solo Salicaceae: importante è la presenza, ad esempio, dell’Ontano nero (Alnus glutinosa), del Sambuco (Sambucus nigra) e di diverse altre specie tra cui l’Oleandro (Nerium oleander), che nei fiumi della Sardegna dà luogo a fioriture spettacolari. Man mano che ci allontaniamo dall’acqua troviamo alberi a legname sempre più duro, passando per i frassini (Fraxinus excelsior e F. oxycarpa), olmi (Ulmus minor) aceri campestri, fino ad arrivare, nelle zone oramai abbastanza asciutte, alle querce, ai faggi e ad altre specie di habitat completamente diverso.

Studiosi degli ambienti fluviali e delle zone umide (wet-lands) hanno definito questi ambienti “supermarkets of biodiversity. Essi, per gli aspetti della biodiversità, sono la nostra ‘Amazzonia’”. C’è da chiedersi quanto conta la vegetazione riparia sulla buona dotazione di biodiversità, sulla stabilità ecosistemica, sulla resilienza e sulla “funzionalità”, aspetti che garantiscono anche benefici ecosistemici. Riporto un esempio illuminante.

In Abruzzo fiumi di acque sorgive oligominerali, purissime, come il Vera (Paganica – L’Aquila) e il Tirino superiore (Bussi e Capestrano – Pescara) hanno livelli naturalità elevati e di biodiversità straordinari, con presenza di specie rare, come plecotteri estinti altrove a causa della loro sensibilità ai disturbi ambientali ed endemismi. Scenario diverso, invece, è ravvisabile a pochi chilometri di distanza.

Qui il fiume Giardino (la cui portata è ridotta a causa di captazione della sorgente a uso acquedottistico), pur disponendo di acque purissime, oligominerali e perenni, è privo della quasi totalità delle specie rispetto ai predetti fiumi. Vi si rinvengono meno del 10% dei taxa di macroinvertebrati appartenenti a specie comuni e resistenti. La differenza sta nel fatto che il Vera e il Tirino superiore hanno ripe vegetate e alveo naturali, mentre il Giardino che attraversa l’abitato di Popoli ha sponde prive di qualsiasi vegetazione arborea e rive sistemate con il cemento e gabbionate. Quanti danni producono le sistemazioni degli alvei e delle sponde con le cosiddette “regolarizzazioni” dei corsi d’acqua! Quanti danni vengono perpetrati (spendendo denaro pubblico) con il taglio indiscriminato della vegetazione riparia!

Mentre scrivo si è appena concluso un albericidio sul fiume Aterno, nel Parco Naturale Regionale Sirente-Velino, in provincia dell’Aquila, ma giunge notizia di stragi simili in Romagna, Lazio, Veneto e altre parti d’Italia. Alla base di queste azioni riprovevoli c’è la frammentazione delle competenze, l’interesse a lucrare sul legname, spesso l’ignoranza spinta di funzionari pubblici che rivestono ruoli-chiave nei processi amministrativi, l’assenza di controlli, autorizzazioni date con leggerezza stravagante, errate convinzioni idrauliche (velocizzare le acque perché non esondino localmente, ma aggravando il rischio idraulico a valle), incapacità di cogliere lo spirito e il dettato della direttiva quadro europea delle acque che ha come obiettivo il ripristino di flora e fauna per garantire il potere autodepurativo degli ambienti acquatici.

Che fare, a questo punto, si chiederà il lettore?

Basterebbe un provvedimento di effettiva tutela delle sponde per una fascia spessa circa 150 metri per veder rinascere o comunque migliorare di molto la qualità dei nostri fiumi e il paesaggio, senza spendere un solo euro. La vegetazione riparia infatti è talmente rapida nel ri-colonizzare spontaneamente i suoi spazi che in pochissimi anni con la sola tutela otterremmo risultati sorprendenti. Ove invece risulti effettivamente indispensabile intervenire, bisognerebbe adottare tecniche di ecologia fluviale, vere e proprie “rinaturalizzazioni”, in aderenza ai modelli naturali spontanei. Occorre infine adottare linee-guida stringenti per l’eliminazione dei soli tronchi morti che potrebbero ostruire le luci dei ponti.

Come è facile osservare, si tratta di una materia complessa e quindi, per forza di cose, multidisciplinare.

 


 

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Giovanni Damiani

Giovanni Damiani

Biologo, vive a Pescara. È presidente di G.U.F.I. (Gruppo Unitario per la difesa delle Foreste Italiane), associazione nata per contrastare l’assalto al patrimonio arboreo e boschivo attuato per alimentare le centrali elettriche a biomasse legnose che proliferano grazie ai generosi incentivi statali, e per diffondere conoscenze sugli ecosistemi forestali, sul loro ruolo negli equilibri biogeochimici, delle acque, dell’aria e del clima, nonché sui benefici socio-economici e ambientali che ne derivano. È consigliere nazionale di Italia Nostra onlus e componente e co-fondatore di numerose società scientifiche. È specializzato nello studio delle acque interne, con particolare riguardo ai fiumi, sia dal punto di vista eco-biologico che chimico. Ha dato un contributo alla messa a punto operativa dei metodi per la determinazione della qualità delle acque e alla definizione della normativa per includervi l’uso degli Indici Biotici. È autore di numerose pubblicazioni scientifiche e divulgative, di saggi e libri sui temi ambientali, per i quali è stato relatore in innumerevoli convegni e seminari in Italia e in Europa. Ha svolto docenze per oltre un decennio come professore incaricato presso l’Università della Tuscia - Viterbo (Valutazione della Qualità delle Acque, Ecologia Applicata, Monitoraggio e Certificazione Ambientale, Chimica Ambientale e Bioindicatori). Sugli stessi temi ha svolto seminari presso l’Istituto Superiore di Sanità, corsi di formazione post lauream per biologi, medici e veterinari in diverse città italiane e università. Attivo da quarant’anni anche nel sociale, ha sempre messo a disposizione dei movimenti ecologisti e dei cittadini le sue competenze scientifiche. È stato assessore all’ambiente della Regione Abruzzo. In qualità di Direttore Generale dell’ANPA (Agenzia Nazionale per la Protezione dell’Ambiente, oggi ISPRA), ha svolto compiti di indirizzo e coordinamento tecnico delle Agenzie Ambientali Italiane e ha stabilito rapporti operativi con agenzie omologhe europee e dei Paesi dell’ONU. È stato componente della Commissione Nazionale per le Valutazioni dell’Impatto Ambientale presso il Ministero dell’Ambiente e Direttore Tecnico dell’ARTA Abruzzo. Ritiene che i problemi epocali siano il clima, la biodiversità e il degrado degli ecosistemi.

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