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In molti e sempre più di frequente mi chiedono se sia corretto usare il termine “piantumazione” per indicare l’azione di messa a dimora di piante (legnose od erbacee).
Ad adoperarlo è stato soprattutto il linguaggio burocratico, ed è estremamente utilizzato negli ambiti e negli scritti, generalmente di basso profilo tecnico. È un verbo ormai molto usato, sempre più di frequente in voga nel linguaggio popolare.

Questo termine è finito varie volte anche in alcune leggi e normative (nazionali e locali), nonostante si tratti di una parola “abusiva”. Difatti spesso questa parola è ignorata perfino in alcuni dizionari, nonostante la terribile tendenza moderna sembri voler accettare di tutto tra regionalismi, forestierismi e usi comuni, come se la loro efficacia e sinteticità espressiva potessero indurre a sorvolare sui limiti grammaticali del decoro del linguaggio.

L’espansione dell’utilizzo del termine “piantumare” non può che marcare a mio avviso, un indice della decadenza dell’accademia, del mondo culturale assieme a quello scientifico e della società contemporanea.
Certe volte si ha l’impressione che persino l’accademia (mondo culturale e mondo scientifico) si fosse dichiarata incapace di poter insegnare l’italiano, o di poter perseguire la giusta terminologia tecnico/scientifica, abdicando al caso.
Per questi motivi, non resta dunque che attendersi ben presto una “sanatoria” anche per questo termine.

Tornando al termine piantumare, le parole che finiscono per -ume sono usate per indicare genericamente quantità indeterminate di materia assimilabile ma non meglio specificata o casomai distinta grossolanamente. Talvolta queste parole sono riferibili ad una massa non meglio definita ma comunque circoscritta in qualche modo e degna di interesse, come ad esempio avviene per: dolciume, salume…
Altre volte questa massa non ha un vero e proprio interesse, ma può indicare anche un senso peggiorativo, come per: fiorume (residuo del fieno) o tritume…
Mentre più spesso, questa desinenza è usata in maniera più o meno dispregiativa, per indicare una massa che ha un valore negativo, come avviene ad esempio per:
appiccicume (insieme di materia appiccicosa),
ciarpume (ciarpame, con l’idea di un insieme di materiale sporco o infetto),
forestierume (accozzaglia di persone o elementi culturali di provenienza estera),
frittume (insieme indefinito di roba fritta, soprattutto se non piace o se non è di buona qualità),
giallume (Giallore accentuato o diffuso; al punto da indicare anche gli effetti di una malattia virale delle piante, che determina l’ingiallimento e la morte della pianta colpita),
marciume (la massa che deriva dalla decomposizione o dalla suppurazione).
E cosi ancora per borghesume, grassume, lordume, morbidume, nobilume, pattume, pettegolume, polverume, putridume, rancidume, romanticume, seccume, selvaticume, sozzume, torbidume, vecchiume, verdume, viscidume, etc.

Piantumare con buona probabilità deriva da una erronea estensione dell’utilizzo del termine “piantume”, in uso in certi ambiti agronomici e vivaistici, atto ad indicare l’insieme delle piante da dover trapiantare o a designare le piante accumulate invendute od ormai invendibili. Probabilmente passato poi in ambiti urbanistici, paesaggistici ed architetturali per via dell’utilizzo di piante “invendute” dei vivai e disponibili quindi sottocosto (magari perfino senza più nomi ed etichette) per essere usate in progetti di verde urbano, riqualificazione, mitigazione d’impatto ambientale o rinverdimento. Piante cioè prese in blocco, a risparmio (o a spreco – a seconda dei punti di vista), senza troppo badare alla loro tassonomia, forma, provenienza, qualità, necessità, stato…. E talvolta usate perfino in aree protette o in altre zone di pregio naturalistico (Sic!). Con tutte le problematiche che ne sono potute derivate con il tempo. Ad esempio, introducendo delle specie non adeguate, perché condannate a seccarsi o al contrario condannate a divenire problematiche, oppure che comportano un eccesso di costi di manutenzione.

Chi usa quindi il termine “piantumare”, finisce per dare ragione a chi considera (nolente o volente) le piante, come una mera massa vegetale, del verdume insomma.

Come un mero complemento d’arredo urbano, come un qualcosa che non abbia un valore intrinseco, né una durabilità e né una dignità propria. Un insieme di roba che può interessare fintanto che può essere commercializzata o piantata da qualche parte, senza troppe attenzioni né troppi distinguo. Come se una pianta valesse un’altra, insomma. Purché essa sia verde, fosse pure di plastica o di metallo. Ecco perché il termine “piantumare” andrebbe evitato nonostante le possibili aperture innovative dei linguisti e nonostante l’uso corrente; ed ecco perché questo termine può suscitare una brutta impressione in molti.

Del resto al termine più dispregiativo di piantume, si contrappone ad esempio postime e piantime, stanti ad indicare l’insieme delle piante e piantine coltivate in vivaio.

Ovviamente le piante sono tutte diverse, ognuna con suoi pregi e difetti, ognuna con sue caratteristiche peculiari e con un proprio taxon. Ognuna con sue attitudini, necessità e problematiche. Anche tra taxa uguali vi sono sempre differenze, come avviene per ogni vivente. Insomma il termine piantumare finisce di “fare di tante erbe un fascio”, negando la dignità propria di ciascuna pianta, finendo per negare anche il concetto stesso di biodiversità. Ecco perché l’impiego di questa parola non può valorizzare neanche chi la impiega.
Il piantume si piantuma, ma dovrebbe essere piantato, cioè le piante andrebbero sempre trattate con dovizia, per essere messe a dimora con scrupolo e coscienza di quel che si fa. Così facendo si eviterebbero pure tanti problemi legati alle piante in ambito urbano e non solo.
Le piante non possono che essere piantate. Pertanto bisogna fare attenzione anche a non dire di piantare i semi, perché i semi si seminano, mentre sono le piante che si piantano. I semi proprio non possono essere piantati, né tantomeno piantumati. Questo, resta ancora una certezza, nonostante tutti gli sforzi dei più accaniti innovatoti linguistici avversi a Dante. Nonostante la possibile superficialità di tecnici e scienziati.

Insomma, va bene essere progressisti anche nella concezione del linguaggio e della lingua nazionale, ma bisogna comunque fare attenzione a non snaturare troppo tutte le parole, altrimenti tutto diventa troppo relativo o tutto diventa vero, assieme al suo contrario.
Oggigiorno, troppi termini vengono sempre più abusati, non solo nel linguaggio comune, ma anche in ambito burocratico, tecnico e scientifico, perdendo il loro significato, con ripercussioni negative per la società.

Vedasi ad esempio cosa è divenuto il termine “biodiversità” o “tutela della natura” ove tutto ed il suo contrario viene perpetrato o proposto. Succede anche per la parola autoctono o con la parola resilienza, con le quali intendiamo il giusto, ma anche tutto il loro contrario. Tutto questo meriterebbe altri articoli ad hoc.

Del resto si possono trovare numerose alternative valide al piantare, come: mettere a dimora, piantagione, sistemare, rinverdire, rimboschire, posizionare, etc. Basta dare adito alla fantasia e alla ricerca di parole adeguate.
Alternative tutte validissime che possono indicare anche con maggiore dettaglio la nobile azione che deriva dal piantare delle piante (meglio se con consapevolezza e rispetto), sia a scopo produttivo, cosi come per lo spirito della decorazione, di riforestazione, di rinverdimento o della rinaturalizzazione del territorio.

Kevin Cianfaglione

Kevin Cianfaglione

È botanico, naturalista, ecologo e paesaggista di estrazione biologica e agronomica. Attualmente è ricercatore e docente presso l'Università della Lorena (Francia). Il suo ultimo libro è: "Human Impact on Danube Watershed Biodiversity in the XXI Century" (et. al.), Springer Verlag.

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