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(Tratto dal Volume 3 di Simbiosi) Puoi Acquistarlo da qui

 

Cosa te ne fai di un ettaro di terreno? Come puoi sfruttarlo? Cosa ne ricavi?

Queste domande – o varianti delle stesse – sono quelle che io e la mia compagna ci siamo sentiti rivolgere quando ci siamo trasferiti nella nostra attuale casa, in una piccola località dell’Appennino reggiano.

In effetti queste sono le domande che reputiamo più logiche, che credo tutti noi ci facciamo – più o meno consciamente – di fronte a uno spazio inutilizzato, come se l’uso gli desse valore, come se lo spazio lasciato a se stesso, lasciato al normale processo naturale implicasse incuria, degrado o addirittura pericolo.

E così ci siamo interrogati su cosa farne di quell’ettaro di terreno, come coltivarlo o a chi affidarlo; tuttavia nessuna soluzione ci convinceva appieno: ognuna di esse andava nella direzione dello sfruttamento dello spazio. In breve: non più che un oggetto a nostra disposizione.

È stato in quel momento che Pietro Comeri – che da anni conoscevo grazie alla comune passione per la rievocazione storica – ci ha parlato dell’Associazione “Città di Smeraldo APS”, di Simbiosi e del progetto “Nuove Antiche Foreste”.

 

NUOVE ANTICHE FORESTE

“Nuove Antiche Foreste” ha l’obiettivo di agire concretamente a favore dell’ambiente, della crisi climatica e della biodiversità, riforestando terreni pubblici e privati antropizzati in Pianura Padana.

Conosciamo ormai tutti l’importanza degli alberi e delle foreste: basta sfogliare i volumi di Simbiosi per averne un’idea e non mi dilungherò oltre su questo argomento.

L’idea che anima il progetto non è quella di piantare semplicemente lunghe file di alberelli, quanto piuttosto quella di ricreare ecosistemi perduti, antichi, quelli delle foreste che ricoprivano il nostro territorio. La foresta infatti è un insieme maggiore della somma delle sue parti, è un sistema complesso, frutto della relazione tra gli alberi (di varie specie) e il suolo, l’acqua, l’aria nonché  gli animali che cercano rifugio tra le fronde e si nutrono dei frutti, compresi i tantissimi insetti e microorganismi che si cibano di tutto il materiale morto, rendendo il terreno fertile e ricco.

Il progetto ci è piaciuto moltissimo e lo scorso novembre – dopo parecchi mesi in cui il terreno ha potuto riposare – abbiamo messo a dimora le prime 500 piantine della “nuova antica foresta”, scegliendo sei varietà presenti nel nostro territorio: roverella, carpino, nocciolo, ciliegio selvatico, pero e melo selvatici. Abbiamo anche sparso ghiande di una vicina quercia monumentale per preservarne e diffonderne il prezioso patrimonio genetico.

Nuove Antiche Foreste” è quindi un’azione concreta, una di quelle occasioni che consentono di fare la differenza nel proprio piccolo: insomma, un’iniziativa “dal basso”.

Spesso infatti ci capita di lamentarci di una politica e di una società civile che non fanno abbastanza per contrastare il cambiamento climatico o per preservare l’ambiente e favorire stili di vita più sostenibili. Ora, sebbene sia giusto sottolineare le mancanze al livello del sistema “macro”, è forse più importante non perdere di vista quelle azioni che sono effettivamente in nostro potere. Sono convinto che se ciascuno, nel suo piccolo, facesse qualcosa, l’intero mondo cambierebbe.

Anche ciò che ci sembra più lontano dalle possibilità del singolo come la pianificazione e la ricostituzione di un intero ecosistema forestale, può arrivare a coinvolgere ampie fasce della popolazione che in questo modo finiscono col sentirsi investite di una responsabilità nei confronti loro e delle future generazioni. Con buona pace di alcuni politici, che continuano a rubricare i boschi a campi di insalata da coltivare e di cui raccogliere i “frutti” l’anno seguente. 

Al contrario, una vera foresta si misura su un tempo che non è quello delle aspettative umane. Si sviluppa per durare, non per esaurire la sua necessità nell’arco di breve tempo.

Certamente io e la mia compagna vedremo una foresta sul nostro terreno, ma solo tra molti anni. Probabilmente decenni.

La domanda provocatoria che ci possiamo porre è dunque perchè aderire a un progetto così a lungo termine, di cui non vedremo i risultati nell’immediato?

 

 

VALORE E UTILE

La questione alla base di questa considerazione ha a che fare col valore che noi diamo alle cose e alle azioni che compiamo.

Cosa si intende dunque per “valore”? Originariamente esso intende un concetto collegato all’ambito dell’azione pratica (valore come “forza”, “potenza”) o addirittura economica. A esso però, nel corso della storia, si è andato a legare il concetto di “bene”, quindi di realizzazione dell’essenza più intima di una cosa o di una persona.

Il problema è che spesso tendiamo a rapportare il valore con l’utile, mentre esso ha a che fare anche con la dimensione del senso.

A livello filosofico, il concetto di “utile” si rifà al filosofo inglese Jeremy Bentham che nel suo “Introduzione ai principi della morale e della legislazione” del 1789 scrive: “per ‘utilità’ si intende quella proprietà di ogni oggetto per mezzo della quale esso tende a produrre beneficio, vantaggio, piacere, bene o felicità oppure a evitare che si verifichi quel danno, dolore, male o infelicità per quella parte il cui interesse si prende in considerazione”.

L’utile ha quindi un valore relativo e, soprattutto, estrinseco. Qualsiasi cosa non ha valore in sé, ma solo in relazione ai benefici che posso ricavarne. Ci chiediamo quanto denaro possa ottenere sfruttando un oggetto, scambiandolo o estraendone risorse. Siamo dunque sempre di fronte a oggetti, privi di valore in quanto tali ma semplicemente utili o inutili. La nostra visione del mondo è separata, ci poniamo in un’ottica predatoria verso noi stessi e il resto del mondo. Ma se il mondo è fatto solamente di oggetti utili, io non posso che pormi in una dimensione di dominio, gerarchica, che non potrà mai essere sostenibile nel lungo periodo, in quanto implicherà sempre la sottomissione – di altri uomini, di animali, di interi ecosistemi – generando disequilibrio e conflitti costanti.

Questa peraltro è la base di una delle più grandi contraddizioni della green economy la quale – pur essendo sicuramente molto più virtuosa e auspicabile di una economia basata sullo sfruttamento indiscriminato delle risorse ambientali – non porta nessun cambiamento di sistema, perché continua ad agire in nome dell’utile. In breve, continuiamo a cercare soluzioni senza uscire dallo schema. Per usare le parole di Justin Rosenstein nel documentario “Social dilemma”: “viviamo in un mondo in cui un albero, dal punto di vista finanziario, vale più da morto che da vivo”.

Se ci poniamo in questa prospettiva, l’idea di piantare una foresta non ha nessuna utilità, perché non ne trarremo alcun profitto. Certo, potrei pensare che possa servire alla future generazioni, ma a me non serve a niente. Quindi, finchè mi muovo in questa prospettiva, essa non avrà alcun valore.

La questione è molto profonda. Non ha a che fare solo con un “cambio di rotta” ecologico, e non ha nemmeno esclusivamente a che fare con una rivoluzione economica. È qualcosa di più radicale, è un superamento di una visione gerarchica e separata.

 

VALORE E SENSO

Non possiamo quindi individuare nelle cose un valore estrinseco, legato all’utile, ma dobbiamo spostare la nostra idea di valore su qualcosa di intrinseco, che sia legato a una dimensione di senso. La domanda quindi non è se questa cosa mi sarà utile, ma se questa cosa sia dotata di senso, se abbia in sé un significato che le dia valore in sé e per sé.

È chiaro che questa idea di valore non ha nulla a che fare con l’utilità. Essa si muove su binari completamente diversi, implica scelte e azioni diverse e – ancora di più – un diverso sguardo sul mondo.

Innanzitutto, il senso non è quantificabile. Un albero – per tornare all’esempio portato da Justin Rosenstein – ha valore in quanto tale, non in quanto materiale da costruzione, combustibile o altro. Ha valore in quanto esiste. Esso non è scambiabile con un oggetto qualsiasi. Certo, possiamo attribuirgli un prezzo, ma una volta che lo abbiamo abbattuto non abbiamo più l’albero. Esso è stato privato del suo senso, è diventato oggetto, materia inerte. La complessità che lo rendeva unico è stata distrutta e l’ecosistema di cui faceva parte non è più lo stesso.

Per lo stesso motivo, il senso non è manipolabile. Esso è intrinseco alla cosa, quindi sfugge alla nostra possibilità di alterarlo. Se riconosciamo senso a una cosa, essa cessa di essere oggetto a disposizione, ma acquisisce un valore paragonabile al nostro. In tal modo, ci possiamo sentire in relazione con essa.

Questa prospettiva cambia la nostra visione delle cose. Se le cose hanno un senso e non sono meri oggetti a mia disposizione, se hanno tutte un valore intrinseco, non posso stabilire una gerarchia ontologica e assoluta tra di loro.

La prospettiva gerarchica basata sull’utile peraltro ci crea problemi e sofferenze, in quanto ci impedisce di godere delle attività come fini a se stesse. Di fronte a un gesto, un’azione, un impulso creativo, non traiamo piacere dalla cosa in sé ma proiettiamo le nostre aspettative al futuro, ai risultati.

Ecco dunque che, in questa prospettiva, piantare una foresta ha valore, perché la foresta è dotata di senso in sé e per sé, anche se da questo atto io non ne trarrò alcun utile.

 

TEMPO UMANO, TEMPO DELL’ETERNITÁ

C’è anche altro. Ogni volta che osservo il campo in cui le piantine e le ghiande hanno trovato dimora, la mia riflessione si sposta sul concetto di Tempo.

Nel corso degli anni vedrò gli alberi crescere, la fauna ripopolare il campo, la flora diversificarsi, ma non ci sarà mai un momento in cui potrò dire “ecco, il progetto della foresta è compiuto”.

Questo perchè la riforestazione non è esattamente un progetto, è più che altro un processo e, come tale, non ha una fine. Si tratta cioè di un costante mutamento, fatto di fasi che si susseguono, l’una dopo l’altra.

Osservare la mia futura foresta sfida il rapporto col tempo cronologico, fatto di passato, presente e futuro, misurabile e quindi valutabile. Un tempo che mi promette di vedere risultati concreti in un arco di tempo ragionevole, quindi utile. Questo concetto di tempo è rassicurante, mi garantisce il controllo, mi dà potere ma è anche, per sua natura, effimero. Il simbolo migliore che lo rappresenta è quello del dio Kronos, che divora i suoi figli. Se da un lato mi promette che vedrò dei risultati, dall’altro mi garantisce che essi non dureranno.

La foresta invece è un ecosistema vivente. Essa nasce e si svilupperà secondo tempi che non tengono conto delle mie aspettative. Potenzialmente durerà anche quando io non sarò altro che polvere, a meno che non intervenga qualche agente esterno a distruggerla. Forse fra due-trecento anni qualcuno degli alberi che oggi abbiamo piantato sarà un gigante monumentale, in un mondo sicuramente diverso da quello che oggi vediamo intorno a noi.

È un tempo diverso, quello in cui mi proietta la foresta, un tempo che scorre, che fluisce. È il tempo della Natura che, come ci insegna il filosofo Eraclito, “mutando riposa”. E in effetti è proprio questa l’etimologia della parola “Natura”: “ciò che deve nascere”; quindi non ciò che è, ma ciò che continua costantemente a rinnovarsi, a nascere e a mutare.

Contrariamente al tempo cronologico e umano, il tempo della Natura non agisce secondo le nostre aspettative, ma ci promette di durare, in un costante e perpetuo divenire. Il suo cambiamento è radicato. Ed è interessante anche l’uso di questo aggettivo: “radicato”. Non è forse ciò di cui ha bisogno la foresta, ovvero di radici?

E la foresta è infatti il regno delle fiabe e delle leggende, il regno del “C’era una volta”. Ma quand’è stato questo “C’era una volta”? A quale passato fa riferimento?

C’era una volta è adesso, è sempre. Indica un tempo eterno, fuori dal tempo. Il tempo in cui l’essenza delle cose si rinnova e si manifesta continuamente.

 

UNA PROSPETTIVA DI PARTNERSHIP

Riforestare è quindi più che piantare alberi. È un atto concreto attraverso il quale contribuiamo a un mutamento, imparando un nuovo modo di relazionarci col mondo.

Riane Eisler definisce questa trasformazione come il passaggio da una forma di società “androcratica”, ovvero basata sul dominio dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sull’ambiente, a una società mutuale, di partnership, basata cioè sulla relazione equilibrata in una prospettiva sistemica. Come scrive nel suo libro, nel secondo rapporto del Club di Roma leggiamo che “per evitare una catastrofe locale e, in seguito, globale”, dobbiamo sviluppare un nuovo sistema mondiale “guidato da un progetto razionale di sviluppo organico a lungo termine”, sostenuto da “uno spirito di autentica cooperazione globale, nei modi di una libera associazione”.

Certo, quando di parla di “sistema mondiale” la tentazione è quella di immaginare cambiamenti che provengono dall’alto, da nuove indicazioni politiche, da norme e da leggi, ma una cosa che la foresta ci insegna è che il cambiamento avviene dalle radici, dal terreno. Se cambiamo la nostra coscienza, questo influirà su tutto il sistema.

Una società di questo tipo non si preoccupa del dominio e dello sfruttamento, dell’affermazione di se stessi a ogni costo, dell’acquisizione di utile e di potere, ma di garantire lo sviluppo del sistema-mondo, nella consapevolezza che noi ne siamo parte integrante.

 

Note:

1)Antonio Lambertino, Valore e piacere, Vita e pensiero, Milano 2001, pp. 3-11

2)Il calice e la spada, Forum, Udine 2011.

 

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Roberto Baldini

Roberto Baldini

Filosofo e docente di scuola secondaria di secondo grado. E' counsellor professionista a indirizzo gestaltico e transpersonale; studia altresì sciamanesimo e misticismo occidentale e orientale. E' autore del libro "La strada dai molti canti. Filosofia e sciamanesimo greco". Insieme a Katia Guidetti gestisce "Il Passo oltre lo Specchio", un progetto dedicato all’esplorazione di sé e delle proprie relazioni col mondo e con gli altri: www.passooltrelospecchio.com.

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