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(Tratto dal Volume 2 di Simbiosi. Puoi acquistarlo da qui.) 

In questi ultimi mesi si sente spesso parlare di trasmissione di malattie alla specie umana da parte di animali selvatici, ma non si parla mai del contrario, ovvero delle malattie che gli umani trasmettono alla fauna selvatica. Ma andiamo con ordine: cosa sono le zoonosi? Le zoonosi, o malattie zoonotiche, altro non sono che una classe di malattie che gli animali trasmettono all’essere umano (antropozoonosi), o viceversa, che l’essere umano trasmette agli animali (zooantroponosi).

Sono causate da virus, da batteri, da parassiti o da altri tipi di patogeni. In alcuni casi può accadere che uno di questi patogeni, quasi sempre virus, faccia ciò che gli scienziati chiamano un “salto di specie”, spillover in inglese, ovvero il passaggio da una specie all’altra, esattamente ciò che è avvenuto con il Covid-19, uno dei tanti Coronavirus presenti in natura.

Ma perché avvengono i salti di specie? Perché ci ammaliamo o siamo in grado di far ammalare altre specie? La risposta a questa domanda risiede principalmente nella differenza evolutiva tra le specie. In parole semplici, certe specie si sono evolute prima di altre: alcune sono sulla Terra da quando il nostro pianeta è passato da sistema non vivente a organismo vivente (3,9 miliardi di anni fa circa), altre si sono evolute nel tempo come nel caso di molti esseri viventi, tra cui virus e batteri.

Altre specie si sono evolute, invece, in tempi successivi: tra queste gli esseri umani e le specie domestiche, che sono a loro volta frutto dell’evoluzione di specie selvatiche per mano umana, come è avvenuto con il lupo e il cane, il primo progenitore del secondo. Ma cos’è l’evoluzione? L’evoluzione non è altro che il cambiamento e l’adattamento delle specie all’ambiente cui appartengono. Questi cambiamenti determinano, di fatto, la sopravvivenza di quegli organismi che possiedono le caratteristiche più idonee: sono mutamenti che avvengono lentamente e che si possono riscontrare solo a distanza di molto tempo. In Natura, però, le specie non si evolvono indipendentemente le une dalle altre, ma si evolvono soprattutto in funzione della comunità ecologica cui appartengono, ovvero in base all’ambiente e quindi anche in funzione delle altre specie presenti in un ecosistema. Questo evolversi “insieme” tra le specie, si chiama coevoluzione. Ciò significa che tra specie che non si sono coevolute, cioè che non si sono evolute insieme alle altre specie presenti in una comunità ecologica, ci sono grandi differenze anche per quanto concerne il sistema immunitario, che è l’insieme di quei meccanismi che proteggono buona parte degli esseri viventi dall’assalto di virus, batteri “cattivi”, parassiti o altri patogeni. Ciò significa che il sistema immunitario della fauna selvatica è diverso da quello della fauna domestica, in quanto specie selvatiche e domestiche non si sono, appunto, coevolute. Di conseguenza, ciò che fa ammalare gli animali domestici può non fare lo stesso effetto su molte specie selvatiche e viceversa. Ciò che accade, ad esempio, tra lupo e cane. Il lupo, come ben sappiamo, è progenitore del cane ed è apparso sulla Terra tra cinquecentomila e trecentomila anni fa. Nella sua evoluzione da animale selvatico, il lupo si è adattato all’ambiente in cui viveva in diversi modi: si è adattato morfologicamente, modificando il suo aspetto esteriore, ma ha anche adattato comportamento e modo di comunicare, sia con individui della stessa specie che con individui di specie diverse; infine ha adattato il proprio sistema immunitario, in funzione delle malattie presenti nel mondo selvatico. Il cane, invece, si è evoluto dal lupo migliaia e migliaia di secoli dopo. Le ultime ricerche parlano di un periodo compreso tra i ventimila e i quarantamila anni fa. Nel lento passaggio da lupo a cane, l’animale si è nuovamente adattato, stavolta in funzione della vicinanza con l’essere umano, coevolvendosi con l’uomo e il suo ambiente. Allo stesso modo di quanto avvenuto migliaia di secoli prima con il lupo, il Canis lupus familiaris ha adattato al nuovo ambiente non più selvatico parte della sua morfologia, del suo comportamento, del modo di comunicare nonché del suo sistema immunitario. Ragion per cui, lupi e cani non condividono più lo stesso patrimonio genetico, ma solo una parte, e ciò vale anche per il sistema immunitario.

Ma quali possono essere le azioni umane che favoriscono la trasmissione di zoonosi o malattie zoonotiche? Al primo posto vi è l’aumento esponenziale di alcuni animali domestici – sia in contesti urbani che naturali – che condividono con noi parte della loro evoluzione ma non con la fauna selvatica: di conseguenza, anche parte del loro sistema immunitario si è modificato. 

Ma andiamo con ordine: sicuramente tra le azioni che l’uomo compie favorendo gli spillover, ovvero il salto di specie di un patogeno, vi è l’interazione ravvicinata con la fauna selvatica, ovvero la promiscuità, e ciò avviene in diversi modi e per diverse cause:

  1. distruzione degli habitat della fauna selvatica, attraverso, ad esempio, l’uso di pesticidi, disboscamento, etc.: in pratica, distruggendo aree naturali o antropizzandole, costringiamo gli animali selvatici ad adattare il loro comportamento in funzione della nostra presenza, quindi a vivere in promiscuità con specie domestiche, oltre che con gli esseri umani stessi.
  2. Un’altra azione che favorisce promiscuità tra specie selvatiche e domestiche è il foraggiamento della fauna selvatica, che può essere di due tipi: involontario e volontario. Il foraggiamento involontario è quello, che si attua, ad esempio, con i rifiuti o con l’abitudine di alimentare animali domestici che vivono all’aperto, il che poi spinge i selvatici ad avvicinarsi ai centri urbani in cerca di cibo facilmente reperibile. Il foraggiamento volontario consiste invece nella somministrazione volontaria di cibo alla fauna selvatica. Ovviamente non ci riferiamo al foraggiamento da parte di professionisti che si occupano di tutela e conservazione della fauna selvatica (come, ad esempio, i Cras, Centri di Recupero Animali Selvatici), ma ai comuni cittadini, che convinti di fare del bene, in realtà arrecano gravi danni a quegli stessi animali di cui credono di prendersi cura. Quest’azione, oltre a essere illegale nel nostro Paese (salvo specifiche autorizzazioni degli organi competenti) e al rischio di trasmissione di zoonosi, compromette il naturale comportamento degli animali selvatici, che in natura, se non adescati dal cibo, tendono a tenersi ben lontani dalla specie umana. Ma proprio perché tra fauna selvatica e domestica, specie umana compresa, non vi è stata coevoluzione, si rischia, attraverso queste azioni, di trasmettere virus e altri patogeni agli animali selvatici. Gli esseri umani e gli animali domestici sono portatori sani di patogeni che possono essere trasmessi ai selvatici anche solo attraverso il contatto e l’offerta di cibo, patogeni per cui questi ultimi non sono protetti dal sistema immunitario. Inoltre, molto spesso ciò che gli umani offrono ai selvatici come cibo risulta essere tossico! A tal proposito, come non accennare ai numerosi video amatoriali in cui si vedono persone intente a offrire pane, biscotti o cioccolato? Infine, il foraggiamento rischia di compromettere, in molti casi in maniera irrecuperabile, la capacità di sopravvivenza degli animali selvatici: ciò vale per tutti i tipi di foraggiamento, anche quello effettuato con alimenti idonei (come ad esempio banane per le scimmie o noccioline per gli scoiattoli). In breve, è l’azione di alimentare gli animali selvatici in quanto tale a essere sbagliata!
  3. Altra modalità di trasmissione di zoonosi è quella posta in essere dagli animali domestici più comuni e più vicini agli esseri umani come cani e gatti. Nello specifico, il riferimento va a un tipo di trasmissione che spesso avviene attraverso gli escrementi non raccolti di queste due specie domestiche, sia in natura che in contesti urbani. Lo afferma un articolo pubblicato su Research Gate dalla naturalista Lori Hennings, in cui si sottolinea come una delle cause indirette di morte della fauna selvatica è legata alla trasmissione di zoonosi come cimurro, parvovirus, parassiti intestinali, oltre che all’inquinamento delle falde acquifere. Gli escrementi degli animali domestici non raccolti che si depositano sul terreno e penetrano poi nelle falde acquifere, possono inquinare l’acqua e trasmettere zoonosi tanto alla fauna selvatica, quanto a noi esseri umani. Inoltre, l’associazione non-profit americana Leave No Trace Ethics, nata nel 1994 e che dal 1997 collabora con parchi e aree protette in tutto il mondo al fine di sensibilizzare la popolazione a vivere in sintonia gli ecosistemi naturali, a seguito di una ricerca condotta nel 2017 presso il Colorado’s Rocky Mountain National Park, denuncia un eccesso di sostanze non naturali all’interno delle deiezioni canine dei cani di proprietà, che stanno determinando un cambiamento negli equilibri di quel determinato ecosistema. Laddove le feci dei cani non vengono raccolte (ovviamente parliamo di cani alimentati con cibo industriale come le crocchette o la carne in scatola), si riscontra un eccesso di azoto e fosforo, che apporta una variazione nella vegetazione presente, e che pertanto va a incidere anche sulla fauna che se ne nutre, con conseguenze su tutta la piramide ecologica.
  4. Un ulteriore problema è costituito dalle predazioni, tanto dei cani quanto dei gatti domestici vaganti, causa tra l’altro dell’estinzione di moltissime specie come afferma uno studio pubblicato su Nature nel 2013 dai biologi Scott R. Loss, Tom Will e Peter P. Marra. Rispetto ai soli cani, una ricerca condotta in Polonia e pubblicata su Science Direct nel 2016, ha stabilito che essi sono responsabili del decesso di circa 33 mila animali selvatici, appartenenti a 156 specie diverse distribuite in tutto il mondo.  
  5. La naturalista Lori Hennings citata in precedenza, nel suo articolo su Research Gate, precisa che qualunque attività umana ha un impatto sugli ecosistemi, includendo tra queste attività anche la presenza dei cani padronali nelle aree protette. I cani, soprattutto se non al guinzaglio, fanno spostare in maniera temporanea o permanente la fauna selvatica, riducendone di fatto lo spazio vitale. Inoltre, l’odore dell’uomo e dei suoi animali domestici fa allontanare i selvatici e variare il loro comportamento. Questi ultimi tendono infatti a essere meno attivi nelle ore diurne per evitare incontri con i cani. Questo tipo di risposta da parte della fauna selvatica, come afferma la Hennings, inevitabilmente comporta un notevole stress per gli animali, soprattutto in termini di minori possibilità di alimentarsi correttamente e di assimilare calorie. Gli effetti a lungo termine riscontrati comportano un notevole abbassamento delle difese immunitarie, con conseguenze a livello di malattie e incidenza di parassiti.

La recente vicenda della pandemia da Covid-19 ha fatto nascere nuove esigenze di consapevolezza, oltremodo necessarie al fine di affrontare le sfide che ci aspettano, soprattutto per quanto concerne il rapporto Uomo-Natura. Un rapporto delicato, che bisogna necessariamente modificare, non solo a tutela degli ecosistemi naturali e dei loro abitanti selvatici, ma anche degli esseri umani e degli animali domestici tutti, in quanto solo un corretto rapporto con la Natura è in grado di proteggerci da minacce future legate a ulteriori pandemie. 

 

 

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Carla La Barbera

Carla La Barbera

Carla La Barbera nasce a Latina il 23 maggio 1975, da madre insegnante e padre pilota di elicotteri e diplomatico, entrambi grandi amanti della natura e degli animali. La sua formazione è prevalentemente in ambito comportamentale e comunicativo, sia nello studio di animali domestici e selvatici, sia nella sfera umana, in quanto da sempre appassionata di comunicazione non verbale. Questo la spinge negli anni a studiare la Lis (Lingua dei segni italiana) e la cultura sorda nonché a formarsi come educatrice cinofila con approccio cognitivo-zooantropologico. Dalla tenera età mostra una particolare curiosità verso il mondo naturale, con particolare riguardo ai coleotteri. Negli anni a seguire si interessa di animali domestici e di selvatici considerati “antipatici” o “pericolosi” dalla cultura popolare: insetti, pipistrelli, rettili e lupi. Proprio la grande passione per il lupo la spinge a trasferirsi a Pescasseroli, nel cuore del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise, dove vive per oltre 10 anni. In quel meraviglioso parco, ancora bambina, vede per la prima volta lupi e cani da pecora abruzzesi (o mastini abruzzesi), divenuti in seguito i suoi soggetti di studio prediletti, insieme alla cultura pastorale di cui fanno parte. Negli anni a Pescasseroli si dedica prevalentemente alla loro osservazione, ma anche ai cavalli e alla cultura equestre. Negli anni in Abruzzo si concentra altresì su diversi progetti e iniziative legate alla tutela e alla conservazione della fauna selvatica, rivolgendo un occhio particolare a lupi e orsi marsicani. Recentemente tornata a Latina, porta avanti le sue ricerche sui lupi e la cultura pastorale, collaborando dal 2017 con il Prof. Franco Tassi, storico Direttore del Parco Nazionale d’Abruzzo. Attualmente svolge ricerche naturalistiche nel territorio pontino, tra il Parco Nazionale del Circeo e i Monti Lepini.

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