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(Tratto dal Volume 1 di Simbiosi. Puoi acquistarlo qui)

 

Assai spesso, per non dire quotidianamente, mi capita di passare sotto le annose chiome del parco di una villa storica. Pini domestici, cedri, un faggio e una quercia fanno bella mostra di sé in quello che è uno dei più bei giardini della mia città. Tutto magnifico, se non fosse che l’accesso mi è precluso, trattandosi di proprietà privata. Nonostante reiterate richieste di poter censire e misurare gli alberi monumentali presenti in loco, non sono ancora riuscito nel mio intento.

Per fortuna le ingessature dello Statuto Albertino sono alle nostre spalle, tant’è che una sentenza della Corte Costituzionale (105/2008) sancisce che anche il bosco privato, per quanto concerne i benefici ecosistemici, appartiene, de facto, alla sovranità popolare. Ragion per cui, se il proprietario taglia e la collettività subisce un danno, il primo è costretto a versare un indennizzo a titolo di risarcimento.

Se ne ricava che per quanto l’albero possa essere “privato”, i benefici che ne scaturiscono quali ossigeno, regimazione delle acque, prevenzione del dissesto idrogeologico, sono “beni” di assoluta rilevanza collettiva.

Analogo discorso dovrebbe porsi per l’assalto alla foresta amazzonica, giacché il Presidente Bolsonaro ha più volte affermato che l’Amazzonia è un bene esclusivo dei brasiliani, intendendo con essi i discendenti dei coloni portoghesi (un ecocidio che nasconde il genocidio, dato che gli unici veri custodi delle foreste sono proprio i nativi). Un disegno inquietante, che trova conferma nel pensiero del Ministro dell’Ambiente (sic!) brasiliano Ricardo Salles, il quale ha invitato il governo a indebolire la legislazione ambientale: la distrazione dei media dovuta alla pandemia da Covid-19 è un’occasione imperdibile per quella che è a tutti gli effetti una deregulation in stile “assalto alla diligenza”.

Estendendo il ragionamento della Corte Costituzionale su scala più ampia, ricaviamo l’assoluta inconsistenza di confini e sovranismi vari: almeno per quel che concerne l’ambiente, non c’è muro che tenga. L’ossigeno prodotto dalla foresta amazzonica è anche il “mio” ossigeno; da questo punto di vista, affermare che l’Amazzonia va piegata alle esigenze dell’uomo (occidentale o occidentalizzato), assume i connotati di un vero e proprio atto di guerra nei confronti dell’universo mondo.

Se tutto è interrelato e interdipendente, occorre un nuovo paradigma, a partire dall’istituzione scolastica, con particolare riguardo all’università. La partizione dei saperi segnala lo stadio terminale di una civiltà, o meglio l’esito finale di un processo di decivilizzazione che inizia con la fine della condizione di debito dell’essere umano, seguente alla desacralizzazione del cosmo sancita dal cristianesimo. Tale meccanicismo riduzionistico impedisce di cogliere le connessioni e i gangli vitali che delineano quadri ben più vasti e complessi. La visione del Tutto, correttamente interpretata, non è astrazione new-age a buon mercato, quanto l’unico modo per esperire la complessità di un mondo che non ha mai conosciuto separazioni di sorta.

Il lettore, a questo proposito, deve sapere che a seguito di una petizione in difesa delle foreste italiane, promossa dal sottoscritto e dal gruppo “Liberi pensatori a difesa della natura”, si è scatenata una violenta campagna denigratoria da parte del gotha dell’interventismo forestale italiano. Quella che può assurgere a vera catechesi o evangelizzazione del sacro verbo selvicolturale, non ha esitato, in più d’una occasione, a ricorrere a colpi bassi.

Dalle accuse di “tuttologia” a quelle ben più pesanti di cedere alle teorie del complotto (!), di cercare la ribalta mediatica, di avere ambizioni politiche (queste sì, decisamente dietrologie di bassa lega). I dottori forestali troppo spesso elevano la selvicoltura al rango di principio sacro: chiunque metta in discussione questo dogma è oggetto del linciaggio di cui sopra. A mancare, in altri termini, è il senso critico, e, allo stesso tempo, una scarsa conoscenza del dettato costituzionale (in particolare dell’articolo 21).

Ceduazione, provincia di Macerata. Foto: Archivio K. Cianfaglione

Molti di voi, a questo punto, si staranno chiedendo cos’è la selvicoltura. Entriamo nel dettaglio.

Secondo il vocabolario Treccani, selvicoltura può definirsi lo sfruttamento economico del bosco, che di fatto viene coltivato, essendo soggetto a turni periodici di taglio (con impatti che variano a seconda delle tipologie d’intervento). È storia recente il servizio del TG1 a cura di Massimo Mignanelli, andato in onda in prima serata, con interviste ai boscaioli tornati al lavoro a seguito del DPCM Conte, i quali asseriscono candidamente che il bosco è a tutti gli effetti un campo agricolo, e come tale va trattato. Con buona pace della biodiversità e di tutte le funzioni che solo un bosco lasciato all’evoluzione spontanea può garantire. Una lezione di analfabetismo ecologico di cui non si sentiva il bisogno, visto che gran parte degli italiani continua a pensare che tagliare fa bene al bosco perché lo rinnova, che il sottobosco va eliminato, che il legno morto è indice di “sporcizia” e altre amenità. Il club delle biomasse forestali a uso energetico si è spinto persino oltre, fino a paragonare il bosco ai capelli e il taglio a una nuova acconciatura. E gli animali? Dobbiamo forse aspettarci che siano trattati alla stregua dei pidocchi?

I saggi direbbero che è ora di darci un taglio, cioè di smetterla con simili scempiaggini, proferite peraltro da portatori di interessi particolari.

Sembrerebbe dunque che creatività e selvicoltura, nonostante toni dogmatici e sprezzanti, vadano a braccetto, sebbene con costi ambientali e paesaggistici talvolta devastanti. È il caso – nell’ambito del governo ceduo – del cosiddetto “taglio raso con rilascio matricine”, che prevede la conservazione di una certa quantità di piante (le matricine) per evitare la tabula rasa. Fatto sta che ultimamente a essere selezionati sono dei veri e propri fuscelli destinati a schiantarsi al primo soffio di vento (cosiddetto ceduo “stecchino”). Questa concezione predatoria, in nome di uno sviluppismo estrattivista arrembante e spregiudicato, secondo buona parte dei forestali italiani non può essere oggetto di dibattito da parte dei non addetti ai lavori – cosa discutibile già di suo –, persino se si resta a monte dei tecnicismi e dei numeri: così facendo, si finisce per confondere l’idealismo con il populismo, l’ambientalismo con l’ignoranza.

Di più: alla base di questi ragionamenti è una confusione epistemologica riguardo l’interpretazione delle scienze forestali, che porta a elevare un sapere stocastico al rango deterministico, basato cioè su precisi nessi di causa-effetto.

E qui veniamo a considerare una diversa accezione della domanda che dà il titolo a questo scritto: “di chi è il bosco?”, laddove è da intendersi chi è titolato a parlarne, a interpretarne gli usi e le funzioni, se queste ultime rientrano nella sfera dell’utile, del bene da tutelare o di entrambe le cose.

Dal momento che il bosco è irriducibile alla mera dimensione materica, essendo depositario di intrinseci valori culturali, paesistici e persino spirituali, esso non può e non deve essere dominio esclusivo degli specialisti, presunti o tali che siano. Le forme di governo ceduo sopra menzionate, in virtù del violento impatto ambientale e paesaggistico, non sono affatto in linea con il dettato costituzionale (art. 9). E poco importa che il bosco “ricresca”: l’impatto c’è ed è innegabile. Le scienze forestali, come del resto tutti i saperi occidentali, non sono altro che la testa di ponte dell’imperio ottundente della ragione utilitaria, in virtù del quale la quantità va a scapito della qualità e della valenza etica.

Articolo 9

La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.

Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.

Già perché se ho il diritto, costituzionalmente sancito, di ragionare in termini biocentrici (quelli dell’ecologia profonda), la selvicoltura non è altro che una forma di dominio con cui piegare il bosco alle “esigenze” umane, in un pianeta sovrappopolato all’inverosimile.

La foresta, in altri termini, deve riacquisire la sua valenza olistica di sistema complesso, perfettamente autonomo, così da liberarsi della costrizione produttivistica in cui è confinata da troppo tempo a questa parte.

È vero che molte civiltà, soprattutto non occidentali, hanno realizzato con il legno alcune tra le più belle architetture al mondo, ma è altrettanto vero che c’è modo e modo di venirne in possesso.

Altresì il legno sequestra il carbonio durante il processo fotosintetico: un utilizzo sicuramente nobile quello di dar forma a oggetti in un mondo dominato da plastica e cemento. Il problema è che siamo ormai 8 miliardi, sempre più voraci e insaziabili: semplicemente andrebbe cambiata la fonte da cui attingere la materia prima. Non più la coltivazione del bosco spontaneo, ma l’arboricoltura da legno, ovvero la creazione di piantagioni ad hoc in aree agricole non utilizzate.

Ancora una volta il discorso è complesso: se si pensa di continuare a produrre foraggio per gli allevamenti intensivi (secondo CIWF Italia Onlus, in estensione, tali coltivazioni potrebbero coprire l’intera superficie dell’Unione Europea), non ci sarà mai spazio a sufficienza. Né si può pensare di rimpiazzare i nostri consumi con piantagioni di soia o, peggio, di riempire i nostri terreni con colture da bruciare in apposite centrali (cosiddette “bioenergie”). Le soluzioni, da questo punto vista, passano attraverso due elementi chiave: riduzione dei consumi e decremento demografico.

Sembra però ormai che i forestali, sempre più dogmatici e autoreferenziali, si diano un gran da fare “teoretico” per giustificare l’intervento umano: da gestioni selvicolturali tutto sommato accettabili che andrebbero a simulare i disturbi naturali in foreste coetanee e omogenee (come le abetaie alpine) ad altre di taglio ben diverso che prevedono diradamenti, eliminazione del sottobosco e “fuoco prescritto” per evitare gli incendi. L’assunto alla base è che le nostre foreste sono artificiali e condizionate da millenni di attività umane, per cui necessitano di essere gestite. Abbandonarle all’evoluzione spontanea significherebbe in alcuni casi renderle persino pericolose per la pubblica incolumità. Poco importa, dunque, che proprio l’Italia conservi una dozzina di foreste vetuste (faggete) lungo tutto l’arco appenninico, recentemente iscritte nel Patrimonio Mondiale dell’Unesco: è evidente che le proposte di cui sopra trovano scarsa rispondenza nelle teorie di “rewilding”, di cui le foreste vetuste rappresentano un prezioso quanto involontario archetipo. In altri termini: una foresta soggetta a utilizzazioni è in grado di recuperare ricchezza e complessità funzionale se lasciata al proprio corso. Ma questo significa andare contro le leggi del profitto, giacché la conservazione integrale non comporta utilità economiche a breve scadenza. In un Paese a vocazione concreta, i benefici ecosistemici, nonché quelli economici sul lungo periodo, non sembrano suscitare interesse né nell’opinione pubblica né nella politica che ne recepisce le istanze. Questo significa ignorare sia i diritti delle generazioni future, sia le cosiddette “esternalità negative (cioè i costi economici delle utilizzazioni forestali in termini di dissesto idrogeologico e di ripercussioni sulla qualità delle acque, a titolo d’esempio). Il punto è che tra tutte le forme di economia forestale, quella attualmente privilegiata è la più devastante, basata sul puro estrattivismo. C’è da chiedersi, a questo punto, come possano beneficiare di un simile andazzo l’escursionismo e la valorizzazione dei prodotti locali: è chiaro che sussiste un rapporto di mutua esclusione.

Ceduazione, provincia di Macerata. Foto: Archivio K. Cianfaglione

Eppure, a ben vedere, questo antropocentrismo di cui la selvicoltura in oggetto è espressione peculiare, ha radici ben più antiche e profonde di quel che si pensi. Già perché le origini remote vanno rintracciate nella separazione mythos-logos occorsa nella Grecia antica, dalla quale ebbe origine il pensiero occidentale, scientifico e dualistico. L’osservazione che si assume come “esterna” e distaccata, smentita peraltro dalle acquisizioni della fisica quantistica che trovano maggiore rispondenza nell’olismo orientale, continua a essere il perno su cui si fonda il mito della superiorità occidentale, basata su progresso e benessere economico. La «colonizzazione dell’immaginario» – per usare le parole di Serge Latouche – è ormai inarrestabile e conferma la persistenza di un progetto neocoloniale di «riduzione dell’Altro al Medesimo»1, prima occorso con la diffusione della buona novella, oggi perseguito attraverso la follia sviluppista. Del resto, come ci ricorda Tiziano Terzani, «Ogni tecnologia riflette l’ideologia che l’ha prodotta»2.

Orbene, di fronte al dilagare del pensiero unico produttivista, in che modo accendere bagliori di speranza?

Vale la pena a questo proposito riprendere le parole di un pensatore occidentale, discepolo di Martin Heidegger, che ha tracciato una potente Weltanschauung in grado di sovvertire quello che Roberto Calasso ha definito «L’innominabile attuale». Il grande Hans-Georg Gadamer sferra con semplici parole un duro colpo al riduzionismo imperante tarato sulla specializzazione e la parcellizzazione dei saperi, attribuzioni precipue del nostro tempo, allorché definisce lo specialismo «un percorso che limita le esperienze complessive, la personale capacità di giudicare e la Bildung stessa»3.

Profetiche le sue parole, in un periodo di tentazioni autoritarie e di nuove cacce alle streghe: «Oggi sembra ci si debba adattare a tutto questo, ossia all’andamento corrente, per cui non ci si può esprimere liberamente a proposito di qualcosa se non citando qualcuno che se ne è già occupato in un libro».

Va da sé, dunque, che i tentativi di appropriazione indebita del bosco in quanto espressione di valori profondi che esulano dal riduzionismo imperante, sono da respingere con forza al mittente.

Ragion per cui, i tecnici facciano i tecnici. I pensatori, dal canto loro, siano coerenti con la propria missione e non si lascino ingabbiare nelle maglie censorie attualmente in voga: loro compito precipuo è fare da pungolo all’autoreferenzialità dello specialismo settario e intollerante.

 

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1 Emmanuel Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, intr. di S. Petrosino, tr. it. di A. Dell’Asta, Jaca Book, Milano 2006, p. 41.

2 Tiziano Terzani, La porta proibita, Longanesi, Milano 1984, p. 20 e pp. 251-255, in Gloria Germani, Tiziano Terzani: la forza della verità. La biografia intellettuale di un saggio dei nostri tempi, Il Punto d’Incontro, Vicenza 2015, p. 49.

3 Hans-Georg Gadamer, Educare è educarsi, tr. it. e cura di M. Gennari, glossa di G. Sola, il nuovo melangolo, Genova 2018, p. 30. Con Bildung si intende il processo autoformativo dell’uomo, ovvero un “formare se stessi”. Al contrario di quanto accade nella lingua italiana, in tedesco corre una differenza di non poco conto tra l’educazione di se stessi (Bildung) e l’educazione dell’altro (Erziehung).

 

 

 

Diego Infante

Diego Infante

Vicedirettore di Simbiosi Magazine, è nato nel 1987. Vive ad Avellino. Studia filosofia e arti dell’India (allievo della Dott.ssa Gloria Germani, autrice e studiosa del pensiero di Tiziano Terzani). Nel 2015 pubblica La ragione degli dèi, Italic & Pequod, cui segue nel 2018 Le ragioni del Buddha. In Asia centrale sulle tracce del buddhismo “d’Occidente”, Meltemi Editore. Suoi articoli sono apparsi sul Corriere dell’Irpinia, il Quotidiano del Sud, The Frontpage Post, Quaderni Asiatici, Filosofia in movimento. Gestisce un proprio spazio blog sulla piattaforma Long Term Economy, dedicata ai temi ambientali. Dal 2019 è referente per la regione Campania dell’associazione ambientalista RAMI (Registro degli Alberi Monumentali Italiani). Nell’ottobre dello stesso anno, insieme ad altri promotori, lancia su change.org la petizione “Foreste italiane: un patrimonio inestimabile sotto attacco”, che attualmente ha raccolto oltre 84.000 firme. In corso di completamento gli studi di filosofia presso l’Università degli Studi di Salerno.

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