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Proteso sulla silenziosa valle del torrente Limentra di Treppio, nel cuore dell’Appennino tosco-emiliano, sorge uno degli emblemi dello spopolamento dei monti: l’antico villaggio di Chiapporato.

Quando si percorrono i suoi strettissimi vicoli, sbirciando oltre i vetri rotti delle finestre o tra le crepe dei muri in sasso, quasi ci si aspetterebbe di vedere gli spettri di carbonai e boscaioli che un tempo animavano questo luogo, la cui strenua resistenza è ormai fiaccata dalle intemperie e dal prorompente avanzare del bosco.

Antico borgo abbandonato di Chiapporato. Foto di Andrea De Giovanni

Potrebbe sembrare un mero espediente letterario, eppure è proprio tra le mura diroccate di questo borgo, da molti definito “fantasma”, che ha avuto casualmente inizio la mia personale esperienza con un’altra entità appenninica alla quale viene spesso attribuito lo stesso appellativo. La mattina del 29 giugno 2020, infatti, ai piedi di una costruzione recante la data “1872” scolpita sull’architrave, una delle mie fototrappole veniva attivata dal passaggio di un gatto selvatico, filmandolo intrufolarsi circospetto in un vecchio fienile del borgo abbandonato.

Sono trascorsi quasi due anni da quel mio primo “incontro”, e adesso mi trovo di nuovo qui, nel Parco dei Laghi di Suviana e Brasimone, questa volta in compagnia di Daria Victorini, fotografa naturalista, e Laura Viviani, studentessa alle prese con una tesi sul gatto selvatico in Appennino bolognese.

Chiapporato appare all’improvviso, subito dopo una svolta, arroccato su di uno scosceso crinale. La strada sterrata che lo collega al più vicino nucleo abitato è disseminata di impronte ed escrementi di lupi, martore, volpi, cervi, e mentre la percorriamo scruto gli imponenti costoni arenacei che la sovrastano, chiedendomi quanti sguardi si siano già posati su di noi.

“Tra tutti i parchi naturali bolognesi monitorati finora, questa zona ci ha restituito i video degli esemplari più belli”, afferma Laura, riferendosi ai caratteri morfologici che denotano la corrispondenza del mantello dei gatti ripresi dalle fototrappole con il fenotipo distintivo della specie. Una piccola macchia bianca sulla gola, quattro strie scure longitudinali sulla nuca e due all’altezza delle scapole, una banda scura che ne percorre il dorso interrompendosi in corrispondenza della coda, la quale culmina con un numero variabile di anelli, anch’essi di colore più scuro, e una punta nera e arrotondata, sono tutti elementi che consentono di distinguere un gatto selvatico da un comune gatto soriano.

La tesista Laura Viviani controlla una fototrappola per verificare quali animali hanno visitato le sue trappole per la raccolta del pelo. Foto di Andrea De Giovanni.

Al contrario, tali caratteri non risultano altrettanto efficaci nel discriminare i gatti selvatici dagli ibridi. Come spiega Andrea Sforzi, direttore del Museo di Storia Naturale della Maremma, nonché relatore della tesi di Laura, una delle principali minacce alla conservazione del gatto selvatico europeo (Felis silvestris silvestris) è proprio il rischio per quest’ultimo di incrociarsi con esemplari della sua controparte domestica, appartenente ad una sottospecie differente (Felis silvestris catus). Infatti, l’ingresso di componenti genetiche della sottospecie domestica nelle popolazioni selvatiche, potrebbe diminuirne la capacità di sopravvivere e di riprodursi, poiché tali componenti non sono il frutto della selezione naturale operata dagli ambienti in cui la sottospecie selvatica si è evoluta. Tra le possibili soluzioni a questo problema vi sono la sterilizzazione dei gatti domestici e il loro contenimento nelle aree urbane.

L’obiettivo del lavoro svolto da Laura nel Bolognese è quello di testare l’efficacia dei metodi finalizzati ad ottenere campioni di pelo di gatto in maniera non invasiva, ovvero senza la necessità di catturare l’animale. Dal pelo, poi, si ricaverà il DNA, grazie al quale si potranno proseguire gli studi genetici volti a valutare il grado di ibridazione tra gatti selvatici e domestici, e, in ultima analisi, mettere a punto piani di conservazione della specie.

“Abbiamo provato legando delle spazzole al tronco degli alberi e irrorandole con della valeriana. Il tanfo è forte, ma si sa che i gatti ne vanno matti”, racconta Laura, la quale sperava che i gatti selvatici, attirati dalla valeriana, si decidessero a strofinarsi contro le spazzole, lasciando un po’ dei loro peli attaccati alle setole metalliche. Le spazzole sono state visitate da martore, tassi, gatti domestici, così come da gatti selvatici, i quali però non vi si sono mai strofinati. Dalle spazzole sui tronchi, dunque, si è passati al velcro apposto su paletti di legno conficcati nel terreno. “Il metodo ha già dato i suoi frutti in altre parti dell’areale geografico del gatto. Staremo a vedere”, continua Laura mentre è intenta a collocare una fototrappola davanti a uno dei paletti. Una fototrappola è un dispositivo in grado di realizzare video e foto senza la necessità di un operatore che la azioni, attivandosi al passaggio di tutto ciò che presenti una temperatura superficiale superiore a quella dell’ambiente circostante. “Trovare del pelo sulle spazzole non basta. Dobbiamo essere sicuri dell’animale che vi si è strusciato, e le fototrappole possono raccontarcelo”.

Anche i paletti di legno comportano degli imprevisti, come mi racconta Daria: “qualche giorno fa, la fototrappola ha filmato un lupo avvicinarsi ad uno dei paletti, dargli un’annusata, estrarlo dal terreno e portarselo via come se nulla fosse”.

Gatto Selvatico Andrea De Giovanni Simbiosi Magazine Nuove Antiche Foreste Ecosistemi

Laura si prepara a recuperare i peli di un animale che si è strusciato contro le setole metalliche di una spazzola. Foto di Andrea De Giovanni.

La tesi di Laura rientra all’interno di un progetto più ampio (www.gattoselvatico.it), che interessa l’intero territorio italiano, e che mette insieme gli sforzi e la passione di tante persone che si dedicano al fototrappolaggio naturalistico, sia per lavoro sia per hobby. “L’intento è quello di mettere insieme un’ampia banca-dati di osservazioni georeferenziate, con l’aiuto di chiunque voglia contribuire”, mi fa sapere Andrea Sforzi, che coordina il progetto in collaborazione con ISPRA, “in questo modo potremo avere un quadro molto più chiaro di quella che è l’attuale distribuzione del gatto selvatico in Italia”.

 

Ampliamento dell’areale del gatto selvatico

Fino a non molti anni fa, il gatto selvatico europeo era attestato soltanto al Centro e al Sud Italia, Sicilia inclusa, nonché in alcune aree delle Alpi liguri e friulane. All’epoca, la specie sembrava non essere in grado di valicare quella che Bernardino Ragni, uno dei massimi esperti del settore, definì la “Linea Maginot” che andava dalla città di Piombino, sul Tirreno, a quella di Fano, sull’Adriatico, e questo nonostante le condizioni ambientali a nord di tale confine immaginario lo consentissero. Oggi, invece, il suo areale appare finalmente essersi ampliato, grazie anche all’istituzione di aree naturali protette e all’abbandono delle aree montuose da parte dell’uomo. Da questo punto di vista, quindi, la presenza del gatto in Appennino bolognese è degna di nota.

Lascio le dolci pendici bolognesi per spostarmi ai piedi delle aspre pareti rocciose delle Prealpi Giulie, a pochi chilometri dalla città di Udine, e precisamente a Taipana. Qui, una sera di settembre 2021, percorrendo in macchina una stretta e tortuosa stradina di montagna, una ragazza del luogo si è imbattuta in un gattino che vagava spaesato sulla carreggiata. Mossa a compassione dalla scena, e ignara della reale natura dell’animale, la ragazza lo ha preso con sé. Tuttavia, son bastate poche ore e un portabagagli martoriato a morsi e zampate, per farle sorgere il dubbio che quello che aveva tratto in salvo non fosse un docile e coccoloso gatto da compagnia.

Oggi, 11 maggio 2022, quello stesso gatto, che nel frattempo è stato preso in carico dal centro di recupero per animali selvatici di Campoformido, potrà finalmente essere rilasciato.

“Appena ci siamo resi conto che si trattava di un gatto selvatico, eravamo tentati di rilasciarlo immediatamente, con la speranza che la madre lo ritrovasse”, racconta Maurizio Zuliani, gestore del centro di recupero, “poi, insieme a Stefano Pesaro — veterinario che oggi è incaricato di seguire le fasi più delicate del rilascio — abbiamo deciso di ospitarlo presso il centro. La paura che un gufo reale trovasse il gattino prima della madre era troppa”, continua sorridendo Zuliani. Adesso, l’animale è cresciuto e avrà maggiori probabilità di cavarsela.

Mentre attendo che venga allestito il tavolo sul quale il gatto verrà deposto una volta sedato, decido di avvicinarmi alla voliera nella quale l’animale riposa appollaiato su una mangiatoia. Scopro così che se uno volesse togliersi il dubbio su quali siano le differenze comportamentali tra un gatto domestico e uno selvatico, gli basterebbe provare ad avvicinarglisi. Ancora qualche metro mi separa dalla voliera, quando il suo sguardo mi fulmina. Un altro passo ed ecco gli acuminati canini palesarsi all’improvviso, accompagnati da un violento soffio. Decido di allontanarmi, per non stressarlo inutilmente.

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L’indole selvatica dell’animale si palesa in tutta la sua violenza quando il veterinario prova a prenderlo sottoporlo ad una serie di prelievi e all’apposizione di radiocollare e dispositivo GPS prima del rilascio. Foto di Andrea De Giovanni.

L’inferno, però, si scatena nel momento in cui il veterinario si introduce nella gabbia per catturare con un retino l’animale. Alla fine, soltanto l’intervento di un secondo operatore ne consentirà la cattura, seguita dall’immediata sedazione. Il gatto viene quindi adagiato sul tavolo operatorio, dove si procede rapidamente al prelievo di campioni di pelo e sangue e all’apposizione di un radiocollare e di un dispositivo GPS, i quali consentiranno di tracciarne gli spostamenti durante i mesi successivi al rilascio. Nel frattempo, Antonina Badalucco, tesista dell’Università di Parma e tirocinante presso quella di Udine, si affretta a rilevare una serie di dati biometrici, come la lunghezza dei canini, della coda e degli arti.

Stefano Pesaro mi spiega che da sangue e pelo saranno desunte informazioni sulla genetica e sullo stato di salute dell’animale. Grazie al campione di sangue, per esempio, ci si potrà assicurare che il gatto non abbia contratto malattie tipicamente trasmesse dai gatti domestici, come leucemia e immunodeficienza feline. Nel pelo, inoltre, si potranno misurare i livelli di cortisolo. Questo ormone si accumula nel pelo durante il suo accrescimento, e la sua produzione è accentuata in situazioni di forte “stress”.

Lorenzo Frangini fa parte del team di ricerca sui carnivori dell’Università di Udine, guidato dal professore Stefano Filacorda, e insieme ai suoi colleghi si occuperà dell’analisi dei dati raccolti. “Analizzando i livelli di cortisolo nel pelo di gatti selvatici investiti, abbiamo scoperto che i gatti che vivono in aree a densità di sciacalli dorati più alta sono più stressati”, spiega Lorenzo. Lo sciacallo dorato, infatti, oltre a competere con il gatto per le risorse trofiche, potrebbe anche rappresentare un suo potenziale predatore.

Lorenzo a questo punto fa una breve pausa, posando il suo sguardo estasiato sul gatto disteso sul tavolo. Non capita spesso di poter sfiorare un fantasma, e lui non si lascia sfuggire l’occasione, passando per un istante le sue dita sul dorso dell’animale. Poi continua: “I dati derivanti dai campioni raccolti, unitamente a quelli inviati da radiocollare e GPS, ci forniranno informazioni preziosissime. Potremo ad esempio studiare il modo in cui il gatto sfrutta il suo areale, così come valutare il rischio di interazione con i gatti domestici presenti nei centri abitati”.

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La tesista Antonina Badalucco misura la lunghezza dei canini dell’esemplare di gatto selvatico che sta per essere rilasciato. Foto di Andrea De Giovanni

È finalmente giunto il momento del rilascio. Siamo nello stesso luogo in cui l’animale era stato recuperato. Veterinario, giornalisti, studenti, agenti del Corpo Forestale Regionale, sono tutti quanti a fissare il trasportino con il fiato sospeso. Maurizio Zuliani solleva il coperchio. Il gatto, ormai sveglio, si guarda intorno spaesato e, come da prassi, sfodera i canini in una smorfia minacciosa. Qualche istante di riluttanza, prima di compiere uno scatto fulmineo e catapultarsi verso la libertà. I più di noi rimangono in religioso silenzio, a fissare l’animale scivolare nell’erba e farsi strada verso il bosco.

Per un po’ di tempo, continueranno a giungerci notizie di quel gatto sotto forma di segnali radio e puntini su una mappa, poi sarà il silenzio, e l’animale tornerà a sparire in quel mondo che, salvo rare occasioni, ci è ormai precluso.

Pochi giorni dopo, vengo a sapere che nel Bolognese Laura è finalmente riuscita ad ottenere un campione di pelo di gatto selvatico. Le ricerche su questo affascinante ed elusivo felino possono proseguire.

 


 

Riferimenti:

  • Ragni, B.; Possenti, M.; Sforzi, A.; Zavalloni, D.; Ciani, F. The Wildcat in Central-Northern Italian Peninsula: A Biogeographical Dilemma. Biogeographia 1994, 17, doi:10.21426/B617110417.
  • Ragni, B.; Possenti, M. Variability of Coat‐colour and Markings System in Felis Silvestris. Italian Journal of Zoology 1996, 63, 285–292, doi:10.1080/11250009609356146.
  • Ragni, B. L’areale Italiano Del Gatto Selvatico Europeo (Felis Silvestris Silvestris): Ancora Un Dilemma? Hystrix, the Italian Journal of Mammalogy 2003, 14, doi:10.4404/hystrix-14.0-4219.
  • Randi, E.; Parco naturale delle Foreste Casentinesi Monte Falterona e Campigna Biologia e conservazione dei felidi in Italia: Santa Sofia (FC), 7-8 novembre 2008; Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi Monte Falterona e Campigna: Pratovecchio, 2010; ISBN 978-88-95719-01-6.
  • Filacorda, S.; Comin, A.; Franchini, M.; Frangini, L.; Pesaro, S.; Pezzin, E.N.; Prandi, A. Cortisol in Hair: Do Habitat Fragmentation and Competition with Golden Jackal (Canis Aureus) Measurably Affect the Long-Term Physiological Response in European Wildcat (Felis Silvestris)? Annales Zoologici Fennici 2021, 59, doi:10.5735/086.059.0101.
Andrea De Giovanni

Andrea De Giovanni

Classe 1992, originario del Basso Salento, si trasferisce in Emilia-Romagna per frequentare l’università. Laureatosi in Scienze e Tecnologie per l’Ambiente e la Natura presso l’Università di Parma, e, successivamente, in Biodiversità ed Evoluzione presso l’Università di Bologna, attualmente è studente di Dottorato in Antropologia Molecolare: oggetto dei suoi studi sono le comunità mediterranee costiere. La sua più grande passione è la fotografia naturalistica, che coltiva fin da ragazzino. È solito monitorare biologia e abitudini della fauna selvatica anche attraverso l’utilizzo di fototrappole.

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